Si parla di fine della globalizzazione. In realtà, siamo all’inizio di un’era dominata dalla complessità dove non mancano opportunità per il Made in Italy
La globalizzazione sta finendo? Da settimane ormai si sente parlare, sulle maggiori testate italiane ed estere, di “deglobalizzazione”, “globalizzazione selettiva”, “regionalizzazione”, ecc. Fenomeni, questi, che secondo alcuni esperti di geopolitica ed economia internazionale, dovrebbero indurre le imprese operanti sui mercati esteri a rivedere le proprie scelte di business e ridefinire la propria mappa dei rischi.
Secondo alcuni, addirittura, il “combinato disposto” formato dalla pandemia di Covid-19 e dalla guerra in Ucraina imporrà alle imprese italiane ed europee di limitare le proprie operazioni con l’estero a una sola parte del mondo, quella dove si trovano i Paesi cosiddetti amici: l’Occidente.
Se da un lato è indubbio che le relazioni internazionali stanno entrando in una nuova era, l’export continua a essere il driver fondamentale per la crescita dei settori più importanti dell’economia italiana: si pensi, ad esempio, al solo settore della moda, dove le esportazioni hanno registrato un +11% sul 2021 e si stima che toccheranno quota 75,4 miliardi. Per non parlare delle possibilità che, per le PMI italiane, riservano le diverse piattaforme e-commerce B2B (prima fra tutte Alibaba.com), capaci di mettere in contatto seller e buyer provenienti da ogni parte del mondo, minimizzando i costi.
Al centro delle analisi sui trend del commercio internazionale vi è stata, nelle ultime settimane, la Cina: da fondamentale partner commerciale per l’Italia, potrebbe diventare un Paese con cui risulta difficile e rischioso fare affari, anche se si è sottolineato come nel 2021 l’interscambio fra i due Paesi sia cresciuto di oltre il 20% e la Cina continui a rappresentare, per le imprese italiane, un mercato dalle straordinarie opportunità: “il business del futuro”.
Il tema è la dimensione, quando le aziende sono di una certa grandezza sono in grado di andare in quel Paese, aprire i loro negozi e vendere molto. Questo perché i cinesi sono innamorati del made in Italy, non solo moda, ma le tre F: food, fashion, furniture. Anche le piccole e medie imprese possono avere il loro spazio nel Paese, implementando forme di collaborazione come, ad esempio, i multibrand store.
I mercati esteri, compresi quelli più “critici”, continuano a rappresentare un’opportunità fondamentale per la ripartenza delle imprese italiane, anche in un contesto di tensione internazionale come quello attuale. Un’opportunità, però, da cogliere con una profonda cognizione di causa, appoggiandosi a chi detiene le competenze necessarie per muoversi nella maniera più sicura e ottimale sui mercati internazionali.
I mercati e-commerce asiatici, ad esempio, fra cui quello cinese, hanno delle logiche di funzionamento molto diverse da quelli occidentali. Si pensi solo alla spiccata propensione degli attori cinesi alla cosiddetta omnicanalità: essere su tanti canali sia online che offline è anche un modo per diventare più riconoscibili e attirare più traffico, senza perdersi tra le centinaia di migliaia di brand presenti su una singola piattaforma.
Per incrementare il proprio export attraverso le piattaforme digitali, dunque, attenersi al principio “one-size-fits-all”, spesso e volentieri, si rivela una soluzione inefficace. Occorre, fra le altre cose, conoscere anche le piattaforme estere, il loro funzionamento e, all’interno di esse, come si comportano i loro utilizzatori. È per questo motivo che il sito “China-Britain Business Focus”, in un interessante articolo, ha redatto un elenco delle maggiori piattaforme e-commerce cinesi, identificando le principali caratteristiche del loro funzionamento e dei loro utilizzatori.
Forse, più che di fine della globalizzazione, si dovrebbe parlare di inizio di un’era dominata dalla complessità, laddove quest’ultima non implica l’obbligo di rinunciare a importanti opportunità di business, ma la necessità di coglierle investendo sulle opportune competenze e conoscenze.